Un po’ di male “confessato”
dispensa dal riconoscere
molto male nascosto.
Roland Barthes
Comincio dalla frase in epigrafe, quasi certo che mi condurrà in qualche luogo semi oscuro dell’essere. Per prima cosa, tengo a precisare che la parola male qui sarà intesa come sinonimo di errore. L’osservazione di Barthes trae origine da un meccanismo subdolo che talvolta si insinua anche nelle migliori intenzioni: utilizzare la verità per un secondo fine, strumentalizzandola, adoperandola cioè per dissimulare più che per far emergere la realtà oltre le apparenze.
Tutti
sembrano apprezzare lo sforzo di venire a capo delle proprie debolezze, ma
questo apparente mettersi in discussione non ha alcun valore quando rappresenta
solo una critica momentanea nei confronti di un ego ben saldo sulle sue
posizioni ataviche e inflessibili. Non basta un’occhiata fugace al “male
minore”, poiché non appena distolto lo sguardo l’immagine che vogliamo dare di
noi tornerà a reggere le fila dei nostri schemi comportamentali, alimentando la
logorante logica di azione e reazione in un ciclo senza via d’uscita.
Questo
stratagemma poco salutare funziona sia in termini quantitativi, come
nell’esempio citato, in cui riconoscere una dose omeopatica di male, quasi fosse
un vaccino, di per sé agisce da schermo dietro al quale potersi parare per
evitare di dover fare i conti con un male più grande, esteso e probabilmente
radicato in profondità, sia in termini qualitativi, quando cioè si indirizza
volutamente l’attenzione in una certa direzione con l’intento pertinace di
distoglierla da qualcosa di più importante.
Agitare
uno spauracchio dietro al quale nascondersi, ecco il male, e avviene con una
certa frequenza a tutti i livelli:
Sicuramente
nella società (ancora questa parola astratta ed effimera, ma che sotto
molteplici mentite spoglie detiene l’incommensurabile potere di addormentare le
coscienze) che fornisce divagazioni e distrazioni in abbondanza, al fine di
sottrarre preziose energie all’individuo. Ogni società spinge i suoi membri ad
avere per essere, e quindi a non essere mai abbastanza se stessi.
Sicuramente in ciascuno di noi, abilissimo a creare
alibi, a cercare giustificazioni, ad escogitare modi per placare la voce della
coscienza. La mente, in questo contesto, opera al massimo livello di
sofisticazione: riesce ad imbrigliarci con la sua abilità dialettica, facendoci
credere di averci aiutato a trovare il bandolo della matassa, mentre in realtà
preme per rimandare il nostro sviluppo cosciente, un’evoluzione scomoda e
ignota, al fine di mantenere indiscusso il suo predominio. La mente: uno
strumento potentissimo, ma quanti in tutta onestà possono affermare di saperne
disporre a piacimento.
Quanto, ad esempio, utilizziamo il nostro pensiero e non
il contrario?
L’alternativa
a questa impasse è l’apertura del cuore, uno slancio vitale che ci consenta di
superare la paura della paura, per guardare senza timore dentro di noi.
A quel punto occultare non servirà più a nulla, non ci saranno luoghi in cui
nascondersi ed il nostro occhio interiore potrà smettere di tergiversare per
dirigersi davvero al centro dell’essere.
Ammettere qualche piccolezza nella speranza che nessuno
si accorga della voragine che abbiamo dentro è un’indulgenza che intrappola
nell’oscurità.
Piuttosto raccogliamo le energie disperse in rivoli di
autocompiacimento e velleitario tergiversare per indirizzarle laddove vogliamo
illuminare il nostro essere. E lì il potere dell’osservazione amorevole
scioglierà tutte le insicurezze, i blocchi, le resistenze, rendendo inoffensivo
ogni male.
Fabrizio
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