La macchina non può
sopportare di vedersi come un asino
né di essere
reputata tale dagli altri,
ma il vero Essere
non sente umiliazioni.
E.J. Gold
Oggi voglio introdurre uno degli ostacoli più
sottovalutati nel fare chiarezza: la vanità, vale a dire quel concentrato di
pretenzioso egocentrismo che si rivela nel peggior tipo di inerzia, in grado di
confondere le idee perfino sulle verità basilari come l’amore.
Sia chiaro: saper amare se stessi
è un’esperienza fondante, tuttavia l’amore vero non è mai amor proprio, è
incondizionato e come tale non ha padroni e al contempo serve tutto e tutti. Un
Essere identificato con l’apparato psicofisico che lo ospita è ignaro delle
proprie risorse, della forza d’amore cui può fare appello, e tende a difendere
le compiaciute illusioni e gli automatismi della macchina biologica con una
serie di giustificazioni inessenziali e futili.
Questa è vanità, il bisogno
inessenziale di apparire.
Consideriamo il proverbiale
cavallo zoppo che si dice re nel paese degli asini. Sia detto per inciso che
l’intero regno animale, dall’umile lombrico all’altera aquila, ci offre degli
spunti notevoli per imparare a vedere la realtà, tuttavia per il momento ci
interessa solo l’allegoria rappresentata in questo detto popolare da due equini
in verità ugualmente validi e degni. Dal punto di vista esistenziale il nostro
vanesio quadrupede si trova poco al di sopra, se non leggermente al di sotto,
del più lento tra i cavalli da corsa, ma è facile intuire che quest’ultimo,
perennemente a contatto con i suoi limiti e con l’esempio virtuoso dei
coetanei, avrà maggiori stimoli per evolvere e in definitiva l’occasione di
ottenere risultati più durevoli, a patto di non lasciarsi limitare dalle
apparenze.
Invero è necessario vigilare per
non cadere nella smania vanesia di dar mostra di sé: i palchi e i piedistalli
sono adatti alle statue o a chi ne accetta la sostanziale insignificanza:
spiccare di per sé non è gran cosa, e anzi potrebbe solo consolidare
l’identificazione con una personalità per sua natura perennemente insoddisfatta
e insoddisfacente rispetto alla missione dell’Essere. Allo stesso modo
riflettiamo prima di esprimere un giudizio, anche solo interiore: nel tentativo
di affermare come vogliamo apparire potremmo perdere di vista chi potremmo
davvero essere.
La lode e il biasimo, altrui o
interiori, non ci sono veramente d’aiuto, anzi, spesso consolidano schemi e
atteggiamenti della personalità, distogliendoci da noi stessi. Per lavorare su
di sé è opportuno imparare a mettersi seriamente in discussione, ogni dolore o
attacco percepito sarà solo un segnale di identificazione con qualcosa di
diverso dall’Essere radioso e imperturbabile; ma è una fase normale nel
processo di liberazione, poiché tutto ciò che riveste l’essenza è perfettibile
e transitorio.
Infine, va detto che vi è un lato
oscuro della vanità altrettanto deleterio del suo aspetto eclatante, retaggio
della lunga storia di un’umanità divisa tra servi e padroni: il desiderio di
potere. Forse credi di esserne immune, ma nessun essere umano in cammino lo è:
chi preferisce davvero obbedire al dare ordini? Anche il più servile tra gli
individui se osservato attentamente rivelerà nella sua routine degli aspetti
autoritari: in un modo o nell’altro siamo tutti degli inconsapevoli tiranni che
vanno educati al carisma del comando. In realtà governare rettamente
significa anzitutto avere un buon governo di sé, come dare ordini è una diretta
conseguenza del saper fare ordine. Ciò rende autorevoli, padroni consapevoli di
se stessi e del proprio dominio, salvando dall’antico dolore che portò Satana a
dichiarare «preferisco regnare all’inferno che servire in paradiso». Ciascuno
per nascita ha il diritto di essere re del proprio regno, occorre dunque
stabilire con saggezza e lungimiranza quale corona si intende portare.