lunedì 7 ottobre 2013

Il libro del cielo


Tutto ciò che non sai
può essere usato contro di te
Monia Zanon


Da tempi immemori l’essere umano scruta il cielo, ma i metodi e le motivazioni di questa sistematica osservazione sono variati considerevolmente nel corso dei millenni. Le prime testimonianze scritte sullo studio degli astri furono rinvenute in seno alla civiltà che si ritiene abbia inventato la scrittura, il popolo di Sumer, dove ebbe origine la prestigiosa tradizione di studiosi del cielo vissuti nella valle del Tigri e dell’Eufrate. Tuttavia, è bene ricordare che gli osservatori dei cieli mesopotamici furono sempre astronomi astrologi: essi non si limitavano ad osservare e registrare i fenomeni celesti, bensì tentavano di darne un’interpretazione numinosa.

Sfera armillare trinitaria
I babilonesi chiamavano il firmamento Shitir Shame, “il libro del cielo” nel quale si trovano scritti i dettami degli dèi, ed il supremo fine dell’osservazione celeste era proprio leggere la volontà divina per sapersi regolare di conseguenza. Coloro che erano in grado di svolgere questo incarico rispondevano direttamente ed esclusivamente al sovrano, il quale, tramite una corrispondenza incalzante, si aspettava di ricevere incessantemente consigli e indicazioni sulla condotta da assumere in ottemperanza ai segni del cielo. Antichi casi di reale superstizione? No, semplice buon senso.
Superstizione, difatti, è il derivato italiano di un termine latino introdotto da Cicerone nel De natura deorum per indicare coloro che invocavano l’intervento degli dèi affinché conservassero superstiti, vale a dire “sani e salvi”, i loro cari partiti per la guerra. L’esperto oratore latino irride questo atteggiamento deresponsabilizzante dell’individuo pavido, che si affida ad un intervento superiore in termini di mero scambio (ad es. un sacrificio in cambio di una grazia). Quindi, volendo utilizzare il termine propriamente, dovremmo chiamare superstiziosi tutti coloro che si rivolgono al divino per fini utilitaristici, un atteggiamento molto più diffuso in ambito religioso che non fra gli astrologi.


Il nume celeste di per sé non ha affatto questo scopo propiziatorio, al contrario mira ad avvertire l’individuo sull’opportunità o meno di intraprendere certe azioni sotto l’influsso di una determinata configurazione astrale, la quale di per sé non è considerata causa di “buona o cattiva ventura” ma stabilisce piuttosto il corso previsto e nient’affatto predeterminato degli eventi.
Così, per i babilonesi shimtu, “il destino”, andava previsto, letteralmente “visto in anticipo”, perché solo conoscendo la volontà divina manifesta nel libro del cielo sarebbe stato possibile agire con cognizione di causa per volgere gli eventi a proprio vantaggio in virtù di leggi universali ai quali tutto il creato, dèi compresi, deve rispondere. Per questi antichi osservatori del cielo tutto era portatore di senso e costituiva un segno da interpretare, un’opportunità da cogliere per comprendere e compartecipare al corso degli eventi.

Andare per il mondo con gli occhi bene aperti e disposti a cogliere i nessi profondi, non necessariamente causali, tra cose, eventi e persone, è un prerequisito fondamentale per chiunque aspiri a diventare padrone della propria vita. In questo senso, anche l’oroscopo può fornire utili informazioni, purché sia eseguito con perizia e soprattutto interpretato in modo opportuno. Sapere infatti che avrò “Saturno contro” non è un buon motivo per sbuffare e lamentarsi, attribuendo al suo influsso rigoroso ogni difficoltà, ma potrebbe darmi un incentivo per riflettere su quali azioni meritino effettivamente i miei sforzi durante un periodo in cui potenzialmente niente mi sarà concesso con facilità, e così, da “auspicio sfavorevole”, quella consapevolezza può trasformarsi nel mio migliore alleato per liberarmi dal superfluo. Ciò vale per qualunque previsione che da iniziale fonte di preoccupazione siamo in grado di trasformare in un elemento di conoscenza, per rapportarci agli eventi in modo sempre più sensato e consapevole. 
Mariavittoria



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